L’Associazione Culturale “Yupiter! 41” presenta “Ammaliata”, spettacolo vincitore del bando di produzione “ETI-I Teatri del Sacro 2009”; orchestra popolare per coro di sei voci (Luigi Tabita, Fabio Pappacena, Paolo Pollio, Roberta De Stefano, Lisa Severo, Andrea Panichi) e tre seggiole è composta e diretta da Giuseppe L. Bonifati con la collaborazione di Cecilia Di Giuli; le percussioni sono di Antonio Merola; le luci di Luca Migliaccio; le scene e i costumi di Giuseppe L. Bonifati e Cecilia Di Giuli; consulente linguistico letterario è il prof. Leonardo R. Alario.
La ricerca drammaturgica di “Ammaliata” è partita come una larga spirale di lingue con certe
assonanze della Calabria, della Campania e della Puglia che arrivano dal mare, dalla montagna a celebrare matrimoni di suoni, oscuri riti popolari. La scena si popola di voci, innanzitutto, che fioriscono nella forza interpretativa dei sei attori tra frasi e canti intonati dove la parola è il suono stesso, le luci corpo della parola. La messinscena non è spettacolo, non può esserlo soltanto, è anche la volontà espressiva e pittorica del sottoscritto, di un mondo, quello popolare, che dura ancora. Gli statuti arcaici della civiltà contadina non hanno subito grosse modifiche e le credenze vengono conservate come patrimonio memoriale non discutibile.
“Ammaliata” è l’appellativo col quale viene designata una persona che è stata colta dal fascino a motivo della sua avvenenza o, semplicemente, per invidia; esistono formule di scongiuro in grado di placare il fascino subito. Questi riti sono molto praticati in tutta la Calabria e fanno parte di un gruppo di credenze popolari ben più ampio, ancora in vita, strettamente legate ad una complessa simbologia mitico – religiosa presente tutt’oggi. Vi è comunque uno scarto da notarsi tra le vecchie e le nuove generazioni: un gap generazionale che ha prodotto una mancanza di valori, usi e costumi della cultura del popolo basso. Questo è dunque un motivo per riafferrare ricordi, immaginare parole per evocare ricordi, la nostalgia di sensazioni in una sinfonia di “vitalismi” meridionali dove salta fuori ciò che è e ciò che più non è. L’idea di spettacolo è sicuramente quella di un teatro di viscere, di parole urlate, cantate, fortemente vitale attraverso le sue radici idiomatiche e i suoni forti e collettivi. Un gioco meridionale che chiude con una dolce sonata, malinconia e ombre. Il testo vuole inseguire il senso del suono, nella maggior parte dei casi, nella maniera più forte per esaltarne la potenza. Musica e parola sono una cosa sola; nessuna battuta è veramente naturale: la parola salta, sbalza, parte a linea dritta, schermisce, è tesa all’invenzione di ritorni musicali; è’ il ricordo di persone che non sono più ma che hanno lasciato un immenso vocabolario di lingue dal quale poter sempre attingere.