Gio. Mar 30th, 2023
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cina1890

L’opinione pubblica occidentale rimane sconcertata dalla rapidità dei procedimenti  giudiziari cinesi: in poche ore vengono comminate al dissidente Liu Xiaobo ben 11 anni di carcere  (tutte da scontare effettivamente) o addirittura la condanna  a morte per un trafficante di droga.

Il fatto va spiegato con concezioni  del diritto profondamente diverse dalle nostre.

Per noi occidentali  il diritto è essenzialmente posto a garanzia del singolo: il giudice  può operare nei limiti delle pene e delle procedure e solo per reati esplicitamente previsti: non per niente nelle nostre lingue “diritto” indica tanto le leggi che i diritti dei singoli.

In Cina tradizionalmente, invece la legislazione  si basa sui doveri: se il cittadino non ottempera ai propri doveri allora la pubblica autorità, nella persona del funzionario preposto (non esisteva un giudice, come figura distinta) lo condanna alla pena che ritiene opportuna. Esistono sin dall’antichità leggi scritte: ma il funzionario  giudicava molto liberamente, noi diremmo a  suo arbitrio, sulle pene e sulle procedure, sopratutto ispirandosi al pensiero di Confucio. Una giustizia rapida ed efficace, senza troppe formalismi, tutta basata sulla “saggezza” del  mandarino.

Quando nell’800 gli occidentali cominciarono a insediarsi per commerci in Cina non vollero  sottostare a questo tipo di giustizia  e con il trattato di Nanchino seguito alla Guerra dell’oppio ottennero le “Capitolazioni”: il cittadino europeo poteva essere giudicato solo dalle autorità consolari del suo paese ed era immune dalla  legislazione cinese: in pratica godeva di una quasi illimitata impunità, qualsiasi crimine potesse aver commesso in Cina.

Le Capitolazioni era presente anche in altri paesi (nell’impero turco, ad esempio): in Cina furono vissute però, come una immane ingiustizia, una umiliazione insopportabile: il loro ricordo è ancora ben presente nei Cinesi che reagiscono quindi  sempre molto duramente a qualunque pressione straniera nei loro fatti  di giustizia; una questione di orgoglio o, se si preferisce, di dignità nazionale.

Alla fine del ‘800 si cercò di avvicinarsi alla legislazione occidentale, spirandosi al codice tedesco che era stato adottato interamente dal vicino Giappone. Ma con la caduta dell’impero ogni ordinamento civile andò in pezzi. La giustizia fu amministrata dai signori della guerra, dalle autorità militari delle  fazioni in lotta,  divenne molto più arbitraria che al tempo dei funzionari imperiali.

Con la fine della guerra civile e la proclamazione  della Repubblica Popolare  però la situazione  giudiziaria  non migliorò: si era giudicati molto sommariamente per attività antirivoluzionarie vere o presunte o  immaginarie: con la Rivoluzione Culturale  si diffusero i giudizi popolari veri e propri linciaggi. Si teorizzò pure che i codici penali fossero espressione della borghesia per opporsi alla vera giustizia, quella  proletaria.

Con le riforme di Deng Xiaoping si  riuscì finalmente ad adottare  un codice penale (non esiste quello civile) di cui l’ultima riforma è stata fatta nel 2005.

Le procedure sono però sempre molto semplici  e soprattutto le severe penesono effettivamente scontate: in Cina, diversamente che in Italia,  la giustizia non ha il problema della lentezza e della effettività delle pene.

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Teste recise di condannati  esposte sulla pubblica piazza in una foto della fine dell’Ottocento

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