Il risultato delle elezioni in Iran viene interpretato nella stampa occidentale come l’affermazione dei conservatori a sua volta spiegata come risultato della politica di Trump che, con le sanzioni e soprattutto con l’assassinio del generale Soleimani, ha rafforzato la fazione più radicale. Nel complesso possiamo considerare corretta questa interpretazione ma le cose sono molto più complesse come lo sono sempre in Medio Oriente. Cerchiamo di approfondire qualche punto essenziale.
I risultati
Non sono facili ad essere interpretati. Prescindiamo dai dubbi sulla effettiva veridicità in un contesto che non brilla per trasparenza: ricordiamo che le elezioni di Ahmadinejad furono a lungo contestate.
Il problema è che in Iran non esistono i grandi partiti che organizzano l’elettorato con programmo chiari e precisi (diciamo cosi) come in Occidente, ma il sistema è quello dei primi tempi delle democrazie come quello in vigore nell’ Italia prefascista. Alle elezioni hanno partecipato ben 61 partiti in collegi uninominali. Questo significa che ogni candidato essenzialmente rappresenta se stesso e viene poi interpretato come conservatore (integralista) o come progressista (meglio: pragmatico ). In effetti la distinzione è abbastanza sottile perché comunque tutti debbono mostrarsi fedeli ai principi etico-religiosi-politici della repubblica islamica. Non è quindi agevole dire quanti candidati e in quale misura essi possano appartenere a questa o quella parte politica.
Astensionismo
Una commissione etico religiosa, che fa capo alla Guida suprema Khamenei, esamina tutti i candidati ed esclude quelli che giudica non adatti, in pratica non abbastanza fedeli ai principi della repubblica islamica. In questa occasione quasi la metà dei candidati è stata esclusa, tutti o quasi appartenenti alla fazione progressista-pragmatica. In pratica, quindi, gli elettori moderati non avevano candidati e quindi erano spinti all’astensionismo. Infatti Khamenei a lungo e appassionatamente ha invitato tutti a votare come prova di fedeltà e sostegno al regime. In realtà l’affluenza è stata solo del 42%, la più bassa nella storia dell’Iraq. Quindi, a ben vedere, le elezioni non sono state affatto un’affermazione dei conservatori ma una sconfessione del regime.
Il sistema di potere
In Iran è quanto mai complesso. In teoria è una repubblica presidenziale sul modello USA: le elezioni, piu importanti, non sono quindi queste per il Majlis (parlamento) ma quelle che si terranno l’anno prossimo per il presidente (come in USA). Tuttavia a questo potere elettivo si sovrappone un potere religioso: “Velayat-e faqih,” (tutela del giurisperito) guidata e incarnata dal Rahbar ( Guida suprema, traduciamo noi impropriamente), attualmente Ali Khamenei, che è eletta a vita da un consiglio di esperti, in parte elettiva, in parte designato dalle gerarchie religiose. Fino a che tale carica venne ricoperta da Khomeini in realtà era essa la vera autorità assoluta e le altre cariche erano semplicemente formali. Khomeini designò poi come successore Khamenei che fu scelto non per particolari meriti e capacita ma perché il più fedele, mentre altri ayatollah più prestigiosi erano stati scartati per dissensi più o meno velati ( fra cui il grande ayatollah Montazeri).
Legati alla Guida suprema sono le organizzazioni dei basiji e delle Guardie della rivoluzione e altre simili che sfuggono praticamente al controllo del presidente ma rispondono direttamente alla Guida Suprema. Il capo militare era il generale Soleimani ucciso dagli americani. Sono queste forze a sostenere all’estero la politica di intervento. Sostengono in Siria il regime di Assad (della setta degli Alawiti assimilata agli sciiti ma diversa), nello Yemen e ai confini dell’ Arabia Saudita gli Huthi formata dagli zaydita, una setta diversa ma anche essa assimilata agli sciiti, in Libano gli sciiti hezbollah in particolare conflitto con Israele. Più complesso il rapporto in Iraq in cui predomina la maggioranza sciita ai danni della minoranza sunnita mente i Curdi, pure essi sunniti, in pratica costituiscono uno stato a parte anche se formalmente parte dello stato iracheno alle cui istituzioni pure partecipano. Qui infatti gli sciiti oscillano fra una solidarietà religiosa con gli iraniani e una propria autonomia, guidati dal novantenne Ali al-Sistani, iracheno ma di origine iraniane.
All’interno dell’ Iran queste forze controllano molta parte della economia. Sono stati esse poi a reprimere nel sangue, senza tentennamenti, le dimostrazioni anti regimi innescato non da motivi religiosi ma semplicemente dalla crisi economica e dalla povertà dilagante. Si tenga conto che da ben 40 anni l’Iran vive una clima di emergenza, di isolamento che Rouhani cercava di superare ma che la politica di Trump ha inasprito violentemente con gravi sanzioni imposte in pratica anche ai riluttanti europei (le imprese vengono poste di fronte alla scelta del fare affari in USA o in Iran: la scelta è obbligata). Di fronte alle oceaniche manifestazioni di cordoglio ai funerali di Soleimani, di rabbia contro gli USA, così sentite da portare anche a una strage per la calca non sono mancate manifestazioni più contenute ma pure più significative di quei cittadini che vedevano in tutto questo un aggravarsi della situazione economica.
In conclusione, quindi, non è poi affatto scontato che le elezioni abbiano segnato una vittoria effettiva, reale delle forze conservatrice della repubblica islamica: potrebbero essere anche l’inizio della fine per un regime che comunque ha segnato 40 anni di lutti, guerre, povertà e difficoltà di ogni genere, in un clima di emergenza che non ha mai fine.
