
Incontrare l’intelligenza e la sensibilità del poeta Luigi Carotenuto è una preziosa occasione di crescita interiore.
Il suo parlare calmo e suadente infonde un senso di pace benefico: la dolcezza è una panacea in un mondo gridato, esagerato e frenetico.
Luigi Carotenuto nasce a Giarre (CT) nel 1981, vive a Castell’Arquato (PC).
Ha pubblicato L’amico di famiglia e Vi porto via, Prova d’Autore, Catania, 2008, 2011; Taccuino olandese, Gradiva n° 48 Olschki, Firenze, 2015; Krankenhaus, gattomerlino, Roma, 2020; Krankenhaus suivi de Carnet hollandais et autres inédits, Éditions du Cygne, Parigi, 2021, cura e traduzione francese di Irène Dubœuf.
Ha curato due voci (Insana, Testori) del Dizionario critico della poesia italiana, 1945-2020, a cura di Mario Fresa, SEF, Firenze, 2021.
Dal 2010 collabora con la rivista l’EstroVerso ( www.lestroverso.it) diretta da Grazia Calanna.
Inaugura quest’anno la rubrica particelle sonore per la rivista NiedernGasse (www.niederngasse.it) diretta da Paola Silvia Dolci.
Nel n° 161 della rivista Ellin Selae (ellinselae.org) usciranno alcuni suoi testi tratti dalla raccolta inedita italian dystopia.
Lo abbiamo incontrato per un’interessante intervista che rivela tutta l’essenza di un’anima semplice e saggia alla ricerca delle preziosità della vita.

- Cosa significa e perché Krankenhaus?
Significa ospedale in lingua tedesca. Il titolo nasce, come raccontato in un video per la casa editrice gattomerlino di Piera Mattei, che ha accolto la pubblicazione, e accennato da Leonardo Barbera nella sua presentazione, perché, in un momento di pausa, nei giorni in cui mio padre fu ricoverato per la rottura di un femore, nel 2011, andando a mangiare qualcosa in un pub capitò, mentre si svolgeva al suo interno un gioco a quiz, una domanda che mi riportava al posto che avevo appena lasciato: come si dice ospedale in tedesco. Da lì è scaturita l’urgenza di scrivere i testi che hanno costituito il libro e diversi altri poi scartati. L’assonanza della parola con la rottura del femore, il richiamo all’osso, mi hanno dato la certezza che quello fosse il titolo più indicato, dovuto peraltro a quella particolare sincronicità.
- I ricordi: meglio averli o dimenticarli?
Dipende cosa diamo da mangiare ai ricordi, mi viene da dire, affinché possano abitarci; o forse è meglio che essi siano « definitivamente » scartati e rifiutati? (la psicoanalisi ci direbbe che il rimosso ritorna nostro malgrado, soprattutto se particolarmente traumatico). Col nutrire i ricordi, intendo il guardare a essi con rispetto e senza sentimenti di rabbia o nostalgia troppo accanite, questo rimanda alla necessità di un percorso di disidentificazione dal nostro ego, assolutamente necessario per tentare uno sguardo equanime sugli altri e noi stessi.
Sempre in termini più legati a riflessioni di natura spirituale, direi che tutto ciò che torna, ha da indicarci qualcosa, spesso i ricordi/rimorsi, ricordi che mordono, servono a purificarci, a essere da monito o insegnamento, quindi penso vadano accolti con riguardo e senza attaccamento, come ciò che passa davanti a un fiume, transitorio, mutevole, come la nostra natura.
- Tu scrivi: «Cosa sono i tuoi ottant’anni? Quattro ventenni a un tavolo verde».
Ci spieghi cosa intendi?
Grazie per aver prestato ascolto proprio a questi versi. Qui intendevo come gli anni in fondo siano briciole al cospetto dell’eterno, ho immaginato la figura di mio padre divisa in quattro giovani vite di ventenni, davanti a un tavolo da gioco, dove forse la posta è proprio quella dell’esistenza, chissà.
Poi le suggestioni sono libere di prendere strade diverse a seconda dei lettori e del loro sguardo.
- Cos’è l’assenza e cosa produce.
Pensando al libro, ho immaginato l’assenza prima che ancora ne avvenisse la sua tangibilità, per così dire, come ha scritto con grande sottigliezza psicologica Leonardo Barbera in apertura, e questo fatto, allora, è stato in qualche modo lacerante, quanto affrontato con una forma, forse, di dissociazione dall’io scrivente (l’aspetto biografico è comunque già altro da me quando scrivo).
L’assenza, più in generale, credo possa produrre smarrimento, senso di vacuità, malinconia, a seconda delle circostanze e dei nostri temperamenti, oppure anelito e desiderio, capacità di colmarla attraverso forme di espressione diverse, a seconda degli approcci: dall’arte visiva alla scrittura, dalla musica all’ascolto, dalle pratiche meditative al silenzio. Certo l’assenza ci lancia una sfida molto significativa e rimanda alla dimensione più importante per la nostra natura umana: entrare in noi stessi e ri-conoscere il nostro maestro interiore.
- Come si pone Luigi Carotenuto di fronte alla malattia e alla morte?
Quando ho scritto quei testi, forse inconsapevolmente, mi avvicinavo a territori metafisici, prevaleva però ironia e qualche aspetto nichilista, credo. Adesso, ritengo che, se si presta un certo ascolto, la tessitura degli accadimenti terreni sia spesso di grana celeste. Stati non ordinari di coscienza, sogni, percezioni extrasensoriali, premonizioni, molto c’è di inspiegabile e rimanendo nel mentale e nel razionale strettamente materialista, a volte questi aspetti vengono etichettati soltanto figli di superstizione o invasamento.
La mancanza di fiducia nell’invisibile è uno dei grandi drammi di questi tempi.
Sulla morte dico, con la Bhagavadgītā, che non si muore quando il corpo muore.
Questo non significa ovviamente che malattia e morte non provochino dispiacere o sofferenza,
ma certamente assumono un’altra connotazione se consideriamo la morte come un passaggio, non come una fine, per molti la fine. E questo ci porta ai nostri giorni in cui l’idea di sopravvivenza puramente biologica ha superato in importanza quella della dignità individuale, dell’habeas corpus, di libertà di scelta e sacralità del vivere in quanto esseri umani con le proprie specificità assolutamente inalienabili.
- Parli di fede, abitudine, monotonia: quale di questi ti spaventa e ti intriga di più?
La monotonia, nel suo aspetto mortifero, annientante anche inclinazioni virtuose, altro dall’abitudine consapevole e l’attenzione cosciente, che, anche nella ripetizione, o nella ritualità, se ben dirette si nutrono a fonti di energia inesauribile e rinnovante, quella dello spirito. Questo vale anche per la fede, se si limita a formula ripetuta senza una interiorizzazione vivificatrice, trasformativa.
- Tante sono le evocazioni, gli odori, le sensazioni: cosa ti è rimasto cucito addosso?
Forse la sensazione di transitorietà, di finitezza, sul piano fisico, di commovente fragilità della condizione puramente umana, ma anche dell’inspiegabile e a volte imperscrutabile senso che possono avere le malattie a volte, di levigamento, purificazione, trasformazione e accompagnamento a un altro stato: scrivo in un testo che la malattia ingentilisce. Dipende ovviamente dal modo personale di affrontare gli eventi, dal proprio percorso esistenziale.
- Al termine della stesura di Krankenhaus ti sei sentito vincente o perdente?
Mi sono sentito letteralmente liberato. Ho scritto i testi in uno stato di frenetica necessità interna, in pochi giorni intensissimi, dormendo pochissime ore per notte, come se dovessi assolutamente farlo, e ogni cosa chiamava l’altra in successione. Sentivo anche il bisogno di tenere vivo qualcosa che avesse un peso sostanziale, come se in preparazione e come contrappeso allo stato di perdita. Né vincente né perdente, ho sicuramente attraversato la sconfitta in molte sensazioni che emergono, più che la vittoria. Adesso, a distanza di dieci anni, credo sia stato il giusto tempo per rendere pubblici quei versi, affrontando di nuovo il rapporto con mio padre, forse con la misura necessaria.
- La psiche che si manifesta attraverso l’immaginazione: aiuta o fa soffrire maggiormente?
Credo che l’immaginazione abbia sempre, potenzialmente, un valore rigenerativo. Questa, la potenza dei libri, ad esempio, che possono portare a un’apertura di coscienza e a vette di pensiero inaccessibili altrimenti. Penso ai classici, alle fiabe, al valore dei miti, a tutti quei testi che attivano risorse interiori e trasmutano, in quanto viaggi iniziatici, l’anima del lettore. Ecco perché la lettura ha un’importanza insostituibile per i bambini, insieme alla narrazione, al teatro.
Poi, come in ogni ambito, bisogna esercitare controllo e vigilanza su quanto ci arriva; i media tentano di sottomettere la nostra immaginazione con tutti i mezzi: film, telegiornali, programmi, notizie di ogni genere, articoli, che funzionano anche da riprogrammazione neurolinguistica, instillando ansie, paure, senso di inadeguatezza, sottomissione, conformismo, in una sovrastimolazione incessante sul piano neurocognitivo, emozionale, subliminale.
Bisogna scegliere, sempre, in ogni cosa, cosa guardare, sentire, leggere, ascoltare, vedere.
- Cosa ti piacerebbe ti venisse chiesto per poterne parlare?
Pensavo adesso allo stato di infanzia interiore. Al bambino interiore a cui prestare ascolto e dare spazio. E ai bambini. Accenno, visto che generosamente mi inviti a questa libero esprimersi, a un progetto che ho desiderio di realizzare, chiamato piuma aurea. Si tratta di una scuola di creatività a tutto campo, all’insegna della leggerezza, come l’immagine della piuma indica, e dei valori profondi, aurea come la sezione, le proporzioni, come l’oro alchemico, il sapere potenziale da conoscere e risvegliare in ognuno di noi, che ci mostra quanto siamo reciprocamente tutti connessi, animali, uomini, natura. Mi auguro, e cercherò di farlo con spirito di servizio, di potere attuare questo progetto che è pensato principalmente per bambini e ragazzi dalle elementari alle medie.
- Scrivi: «le ambizioni sono stazioni terremotate». Cosa fanno crollare?
Lì pensavo in primis a quando a volte un genitore smonta i sogni del proprio figlio, fa terremotare appunto le sue ambizioni. Le spegne, o le amplifica, proprio per contrasto. Crollano sogni, moti interiori, passioni. In quel momento credo quell’immagine mi avvicinasse a quel sentimento di lutto precoce e del conseguente stato di disfacimento psichico. Ma a volte le rovine stanno in piedi molto meglio e riportano alla luce nuove risorse inattese di noi.