Erdogan, il “sultano” come lo chiamano polemicamente gli oppositori, ha vinto le elezioni turche. Alcuni parlano di trionfo: ci pare eccessivo. In effetti l’AKP, il partito di Erdogan, aveva raggiunto nel 2007 il 49,83% , mentre nelle elezioni del giugno scorso era crollato al 40,86: ora è ritornato piu o meno ai suffragi elettorali precedenti. Il crollo clamoroso era dovuto in buona parte al successo del partito HDP (al 13, 12 % con 80 deputati) che riuniva Curdi e alcune frange della sinistra considerate una specie di Syriza turca, secondo molto commentatori. In questa tornata elettorale il HDP ha avuto una debacle anche riuscendo, seppure a stento, a superare la fatidica soglia del 10% prevista alla legge elettorale turca, soglia eccessiva e studiata apposta per escludere dal parlamento i partiti curdi. Il HDP era in fondo un espediente elettorale e non ha retto oltre. Però Edogan non è riuscito, nemmeno questa volta, a raggiungere la maggioranza, da sempre agognata, che gli avrebbe permesso di riformare la costituzione assegnando al presidente della repubblica, eletto dall’anno scorso a suffragio diretto, poteri più ampi che gli permettano di governare realmente il paese al di là delle alleanze parlamentari.
Il successo di Erdogan non è visto con piacere, in genere, in Occidente. In Turchia la libertà politiche, i diritti umani come si dice da noi, hanno scarso rispetto: lo si è visto l’anno scorso per la repressione delle dimostrazioni per il parco Gezi di Istambul, per la violenta lotta ai Curdi, e ultimamente per il gran numero di giornalisti perseguitati, incarcerati, costretti all’esilio. Inoltre pesa l’ambiguo comportamento tenuto dai Turchi nei riguardi dell’IS e il proclamato intervento contro di esso che in realtà è divenuto un intervento contro i Curdi che per l’IS hanno costituito la maggiore, se non unica, resistenza effettiva.
Tuttavia dobbiamo pure vedere realisticamente cosa potrebbe accadere in una Turchia dopo una sconfitta di Erdogan: difficilmente si potrebbe avere un governo stabile. Si rischierebbe l’implosione di un paese di 80 milioni di abitanti e con uno degli eserciti più potenti del mondo. Già correvano voci che, in caso di elezioni non risolutive, l’esercito avrebbe preso il controllo dello stato così com’è avvenuto nel passato. Uno scenario simile insomma a quello dell’Egitto di al Sissi con l’esplodere di un terrorismo islamico che si aggiungerebbe a quello curdo. La Turchia laica e Kemalista con un esercito custode dell’ortodossia kemalista, il padre della patria (Ataturk appunto) si è mantenuta per oltre mezzo secolo prima con un partito unico poi, dagli anni ’50, con una democrazia molto limitata con interventi continui dell’esercito: in quello del 1960 si arrivò addirittura all’impiccagione del primo ministro Menderes. Fu sempre repressa in ogni modo l’anima islamica della Turchia: lo stesso Erdogan fu incarcerato e condannato per aver recitato alcuni versi di un poeta turco che inneggiava alla tradizione islamica.
Nel generale risveglio della religiosità islamica non è più possibile seguire ciecamente la linea kemalista: l’unica soluzione è quella di un partito inspirato all’islam ma lontano dagli eccessi dell’IS o di al qaeda: una specie di democrazia cristiana isalmica. E questa è costituita dal Partito per la giustizia e lo sviluppo di Erdogan che non a caso ha osservatori presso il PPE di Europa. Solo esso, a nostro parere, puo costituire una valida diga al dilagare dell’estremismo islamico come quello dell’IS. Ricordiamo pure che la democrazia prima di Erdogan non era certo maggiore e che la caduta di Erdogan potrebbe significare la fine della democrazia sia pure limitata: lo stesso percorso insomma dell’Egitto da Morsi ad al Sissi, come dicevamo.