Un paio di mesi fa, passeggiando con degli amici per le vie del centro di Livorno, conoscendo la mia passione per gli studi sulla Shoah, siamo andati alla ricerca delle pietre d’inciampo di cui la mia amica Elena mi aveva già dato notizia. Nelle vicinanze della Sinagoga, ricostruita nel 1962 in luogo del vecchio tempio seicentesco distrutto dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, si trovano alcune di queste pietre in ottone. In effetti, la città portuale fu quasi tutta distrutta durante l’ultimo conflitto mondiale, per cui i sampietrini non si trovano sempre in corrispondenza di un portone o di un’abitazione da cui gli ebrei vennero strappati per essere deportati, ma sono sparsi qua e là. Quello che è saltato agli occhi, ci ha intristiti ed emozionati è, di sicuro, quello dedicato a GIGLIOLA FINZI, in Via Verdi 25.
Ma chi era Gigliola Finzi? Ecco la testimonianza di Frida Misul, una livornese sopravvissuta ad Auschwitz, che ce lo racconta nel suo diario: “Ad un certo punto, prima di aspettare l’ordine per incamminarci di nuovo, un tedesco, per caso, vide che una delle ragazze teneva un grosso involto tra le braccia. Le fu intimato di far vedere che cosa c’era dentro e questa, tutta sconvolta e tremante, aprì uno scialle nero di lana e apparve una bella bambina di pochi mesi. La madre supplicò tanto il tedesco di non farle del male e chiese di andare dove sarebbe andata sua figlia per seguire lo stesso destino. Ma il tedesco con un grande sogghigno prese la povera creatura, le strappò i poveri stracci di dosso e poi, con grande sveltezza, la scosciò davanti agli occhi inorriditi della madre e di noi tutti. La povera donna non sopportando il grande dolore, cadde subito morta ai nostri piedi. Questa signora era livornese come me, si chiamava Berta Della Riccia. Fu arrestata assieme ai suoi familiari per essere condotta ad Auschwitz. Di tutta la famiglia non è rimasto alcun superstite, perché tutti furono uccisi nelle camere a gas”.
Ecco una delle numerosissime pagine di un libro, quello della Shoah, che non avremmo mai voluto leggere e che, purtroppo, ha avuto come protagonisti non solo donne e uomini ebrei, ma anche moltissimi bambini.
La pietra d’inciampo della piccola Finzi di appena tre mesi indica l’ultima abitazione della sua famiglia livornese prima della deportazione, ma anche il luogo che non poté essere la sua casa. Nacque infatti il 19 febbraio 1944 in un campo di raccolta nei pressi di Grosseto, da genitori livornesi (la madre Berta della Riccia e il padre Natale Finzi ) e fu deportata e uccisa poco prima di entrare ad Auschwitz tre mesi dopo, esattamente il 23 maggio 1944.
Le pietre di inciampo sono il simbolo manifesto dell’esistenza di chi è stato deportato e ha vissuto sulla propria pelle queste atrocità. La “Memoria” e, dunque, ricordare è il giusto vaccino contro razzismo e odio affinché determinati eventi non accadono mai più sotto nessuna forma. Farsi “fiaccola della memoria”, in un momento storico in cui i veri testimoni stanno via via scomparendo, vuol dire proprio questo: non dimenticare la gravità di ciò che è stato, ma soprattutto prevenire un rigurgito, evitando il ripetersi di vicende terribili e umanamente inaccettabili.
La memoria della Shoah non è per i morti, non riguarda il passato, ma è fatta per i vivi di oggi e di domani, per difendere quello che con tanto sacrificio è stato raggiunto.

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